“Nasciamo tutti matti, qualcuno lo rimane” (S. Beckett). Questa frase, evidentemente provocatoria, introduce un tema serio e complesso, qual è quello dei disturbi mentali e della pratica clinica, e tocca direttamente il cuore del problema.

Chi di noi nella vita non si è posto la domanda: “Sono normale o sono patologico?”. Ed ancora, “Ciò che provo fa parte di un disturbo mentale che va curato o di un normale stato di sofferenza che passerà da solo?” Queste domande ci dimostrano come il confine tra normalità e patologia è davvero sottile.

Classificazione dei disturbi mentali

La Comunità Scientifica Internazionale riconosce il Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali (DSM V), giunto ormai alla quinta edizione, come lo strumento base di classificazione di tutti i disturbi mentali. Manuale in continua revisione perché i disturbi “cambiano” con la società che cambia. Si pensi, ad esempio, che nelle prime edizioni del manuale, l’omosessualità era menzionata tra le “patologie” da curare.

L’approccio

Anche l’approccio ai disturbi mentali è cambiato. Si è passati da un approccio “categoriale”, secondo cui ogni disturbo appartiene ad una categoria precisa, che lo caratterizza e lo differenzia sia dagli altri disturbi che da una condizione di normalità, ad un approccio “dimensionale”, secondo cui la differenza tra stato di normalità e patologia non è qualitativa, ma quantitativa e non è netta. C’è un continuum tra normalità e patologia con distinzioni solo quantitative.

Come a dire che, se provo ansia, non è l’ansia in sé ad essere patologica, ma l’intensità con cui la vivo che farà la differenza tra normale e patologico.

Ancora, si è visto che tracce di un disturbo si possono ritrovare anche in altri disturbi, dunque prima di arrivare ad una diagnosi, sono necessari diversi approfondimenti, e sono necessarie valutazioni multidimensionali e multifattoriali.

Tecnicamente possiamo dire che ogni qualvolta una persona presenta difficoltà non riconducibili ad una causa di tipo organico siamo di fronte a forme di sofferenza psichica, o di psicopatologia.

Come nasce un disturbo mentale?

Ci sono momenti nella vita in cui ognuno di noi è chiamato ad affrontare un cambiamento, che può essere di natura diversa: evolutivo, se pensiamo alle diverse fasi della vita, (la pubertà, l’adolescenza, l’età adulta, la vecchiaia) o di altra natura, come un cambiamento di lavoro, di città, la perdita di una persona cara. Il cambiamento non deve essere per forza evidente, o “esterno” a noi, ma può essere anche “simbolico”.

Di fronte a questa “sfida” potremmo trovarci impreparati, non avere gli strumenti, le risorse interne per affrontare il “salto”. Così la soluzione possibile è, a livello inconsapevole, quella di sviluppare un sintomo.

Il sintomo diventa l’unica soluzione possibile, seppure disfunzionale, il nostro appiglio alla realtà. Sembra paradossale, ma è così. Il sintomo mi permette di non precipitare, di restare nella realtà, seppure con sofferenza.

Sono normale o sono patologico?

E qui che entriamo in gioco noi e ritorna la domanda iniziale: “Sono normale o sono patologico?”. “Ciò che provo fa parte di un disturbo mentale che va curato o di un normale stato di sofferenza che passerà da solo?”

Possiamo non capire da dove nascano le nostre paure, ansie, angosce, dipendenze, da dove nasce il sintomo, ma possiamo riflettere su quanta sofferenza ci procura, qual è il grado di compromissione della qualità della nostra vita, o almeno cominciare a chiedercelo.

Il lavoro psicoterapeutico aiuta a porsi queste domande, analizzando non solo le cause che sono alla base dello sviluppo dei nostri sintomi, ma soprattutto analizzando il senso che i sintomi possono avere nella nostra vita attuale ed individuando nuove soluzioni possibili.